mercoledì 2 novembre 2016

Se tornerà la normalità

Pensare al natale adesso significa segnare la propria condanna a morte.
Significa chiudersi in una tristezza eterna dalla quale non si può venire fuori tanto facilmente.
Nonostante ciò J non faceva altro che pensare a quello.
Lo scorso anno contava i giorni per tornare a casa dai suoi cari, dalla sua famiglia, ma soprattutto dal suo uomo e anche se c'erano delle giornate in cui la paura di ritornare al punto di partenza la immobilizzava J aveva una adrenalina in corpo e una luce negli occhi che nessuno avrebbe mai potuto spegnere.
Quest'anno i suoi occhi invece sono tunnel bui e tetri, come un atrio della caverna di un orco.
Sono spenti perché in J non splende alcuna luce di gioia.
Sul suo volto sono chiari i segni del dolore, della sofferenza. Pallida, occhi carichi di lacrime, occhiaie dal colore violaceo, due guance sulle quali sono scorsi fiumi e fiumi di lacrime il cui impeto dell'acqua è stato cosi forte da solcarle ormai le gote.
In queste condizioni si aggira nei meandri della vita e insieme agli scheletri appesi alle pareti cammina, non impaurita, ma con una tale indifferenza e apatia da farle sembrare il tutto naturale.
Nessuno la spaventa, forse perché anche quelle figure la considerano di famiglia, una di loro. Lei continua imperterrita ad affrontare il tunnel, trascinata da un alito di un qualcosa che nemmeno lei riconosce.
Per J la vita è quella. Non più un sorriso, non un sorriso di felicità che prenda la spinta dal suo cuore.
Per J c'è solo un corridoio di specchi in cui specchiarsi e di quadri che le ricordano chi era e come era fino a qualche tempo prima.
Lei ogni tanto si sofferma ad osservarli, sorride amaramente perché è cosciente del fatto che ormai è stato e mai più sarà. Scruta ogni quadro nei minimi dettagli e come un critico artistico ne apprezza la bellezza, ma ne contesta diverse sbavature.
Quei quadri le ricordano cosa aveva e cosa ha perduto e ad ogni sguardo le sue dita chiedono pietà perché strappa le sue unghie con foga, fino a procurarsi delle ferite che sanguinano e bruciano a contatto con la saliva.
Ma quei dipinti rappresentano tutto per lei, la sua vita, la sua storia, il suo essere. La rappresentano sempre e comunque e perciò, con gli occhi persi tra i ricordi, la sua mente inizia un lavoro di introspezione e va giù pesante con i commenti negativi.
Quale migliore critico se non se stessi?
Come durante una seduta dal terapeuta J bacchetta la sua anima, la sua essenza, il suo essere cosi spigoloso, antipatico, cosi meschino. Volano parole pesanti nella sua mente e i rimproveri feriscono come le lame taglienti di un fachiro.
Ad un tratto il suo paziente inizia a piangere e dai lamenti sembra di essere all'inferno dantesco. 
J allora si scioglie e silenziosamente gli si siede di fianco intonando insieme un coro di lacrime.
Si perché J in fondo è una gran sensibile e cerca di essere dura con se stessa solo per auto-comprendere gli errori che la vita, il destino o semplicemente il suo carattere le hanno fatto commettere.
Ad un tratto del corridoio J si specchia perché incappa in quelle superfici riflettenti. 
Si vede malandata, spettinata, in pigiama e molto mal nutrita.
Non è la J di sempre a cui piace andare in giro tutta ben curata, truccata e alla moda. 
Adesso anche una tuta è un abbigliamento top da indossare e le scarpe da ginnastica sono diventate le sue preferite.
Ma quello specchio la mette di fronte alla realtà, una realtà che non le piace affatto perché J dal profondo sente ancora quella spinta del rossetto rosso, dei tacchi e della gonna, ma il male di vivere soffoca questo desiderio e lo lascia dormire in un angolo, per riprenderlo solamente quando tutto sarà tornato alla normalità, se tornerà alla normalità!


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