Pensare al natale
adesso significa segnare la propria condanna a morte.
Significa chiudersi
in una tristezza eterna dalla quale non si può venire fuori tanto
facilmente.
Nonostante ciò J non faceva altro che pensare a quello.
Lo scorso anno contava i giorni per tornare a casa dai suoi cari,
dalla sua famiglia, ma soprattutto dal suo uomo e anche se c'erano
delle giornate in cui la paura di ritornare al punto di partenza la
immobilizzava J aveva una adrenalina in corpo e una luce negli
occhi che nessuno avrebbe mai potuto spegnere.
Quest'anno i suoi
occhi invece sono tunnel bui e tetri, come un atrio della caverna di
un orco.
Sono spenti perché
in J non splende alcuna luce di gioia.
Sul suo volto sono chiari i segni del dolore, della sofferenza. Pallida,
occhi carichi di lacrime, occhiaie dal colore
violaceo, due guance sulle quali sono scorsi fiumi e fiumi di lacrime il cui impeto dell'acqua è stato cosi forte da solcarle ormai le gote.
In queste condizioni
si aggira nei meandri della vita e insieme agli scheletri appesi
alle pareti cammina, non impaurita, ma con una tale indifferenza e
apatia da farle sembrare il tutto naturale.
Nessuno la spaventa,
forse perché anche quelle figure la considerano di famiglia, una di
loro. Lei continua imperterrita ad affrontare il tunnel, trascinata
da un alito di un qualcosa che nemmeno lei riconosce.
Per J la vita è
quella. Non più un sorriso, non un sorriso di felicità che prenda la spinta dal suo cuore.
Per J c'è solo un
corridoio di specchi in cui specchiarsi e di quadri che le ricordano
chi era e come era fino a qualche tempo prima.
Lei ogni tanto si
sofferma ad osservarli, sorride amaramente perché è cosciente del
fatto che ormai è stato e mai più sarà. Scruta ogni quadro nei
minimi dettagli e come un critico artistico ne apprezza la bellezza,
ma ne contesta diverse sbavature.
Quei quadri le
ricordano cosa aveva e cosa ha perduto e ad ogni sguardo le sue dita
chiedono pietà perché strappa le sue unghie con foga, fino a
procurarsi delle ferite che sanguinano e bruciano a contatto con la
saliva.
Ma quei dipinti
rappresentano tutto per lei, la sua vita, la sua storia, il suo
essere. La rappresentano sempre e comunque e perciò, con gli occhi
persi tra i ricordi, la sua mente inizia un lavoro di introspezione e
va giù pesante con i commenti negativi.
Quale migliore
critico se non se stessi?
Come durante una
seduta dal terapeuta J bacchetta la sua anima, la sua essenza, il suo
essere cosi spigoloso, antipatico, cosi meschino. Volano parole
pesanti nella sua mente e i rimproveri feriscono come le lame
taglienti di un fachiro.
Ad un tratto il suo
paziente inizia a piangere e dai lamenti sembra di essere all'inferno dantesco.
J allora si scioglie e silenziosamente gli si
siede di fianco intonando insieme un coro di lacrime.
Si perché J in
fondo è una gran sensibile e cerca di essere dura con se stessa solo
per auto-comprendere gli errori che la vita, il destino o
semplicemente il suo carattere le hanno fatto commettere.
Ad un tratto del
corridoio J si specchia perché incappa in quelle superfici riflettenti.
Si vede malandata, spettinata, in pigiama e molto mal
nutrita.
Non è la J di
sempre a cui piace andare in giro tutta ben curata, truccata e alla
moda.
Adesso anche una tuta è un abbigliamento top da indossare e le scarpe da
ginnastica sono diventate le sue preferite.
Ma quello specchio
la mette di fronte alla realtà, una realtà che non le piace affatto
perché J dal profondo sente ancora quella spinta del rossetto rosso,
dei tacchi e della gonna, ma il male di vivere soffoca questo
desiderio e lo lascia dormire in un angolo, per riprenderlo solamente
quando tutto sarà tornato alla normalità, se tornerà alla
normalità!
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